È stato definito Prete di frontiera; i suoi valori, tramandati dalla sua famiglia, si fondano sull’accoglienza, sulla non-violenza, sulla pace, la condivisione, tant’è che dal ’92 è responsabile del Centro di Accoglienza per immigrati “Ermesto Balducci” di Zugliano (UD).

Si tratta di don Pierluigi Di Piazza, che, lo scorso 16 giugno, è venuto a farci visita qui a Futura. Abbiamo avuto la fortuna di condividere il pranzo con lui, ma prima ancora, io, Paolo, e Michele Ervoni – responsabile del centro Semi-residenziale Punto Zero -, abbiamo avuto il piacere di fare una chiacchierata con lui. Ecco l’intervista che ci ha rilasciato questo piccolo e grande uomo. Per tutto questo noi di Futura lo ringraziamo in modo speciale, soprattutto per il tempo che ci ha messo a disposizione.

Quando ti è nata l’idea di scrivere quest’ultimo libro, “Compagni di Strada”, e perché?
Lia Di Trapani che lavora nella Casa Editrice La Terza, dopo la buona riuscita del libro “Fuori da tempio, la Chiesa al servizio dell’umanità” (2011) mi ha proposto di scrivere un altro testo. Ho accolto subito l’invito con gratitudine, ho avvertito dentro di me una qualche resistenza, una minor forza interiore per la scrittura, ho atteso; lei con delicatezza ha insistito e ho accettato nel momento che ho riavvertito interiormente l’energia per lo meno sufficiente. Ho scritto soprattutto, anche se non solo, durante la scorsa estate nelle domeniche pomeriggio, ritirandomi nella soffitta della casa natale in Carnia, a Tualis di Comeglians. I compagni di strada presentati nel libro sono alcuni, veramente pochi, anche se significativi, rispetto ai tanti, donne e uomini, della mia vita. Alcuni sono accostati anche a motivo di circostanze particolari, come ad esempio don Andrea Gallo e don Pino Puglisi: mi stavo recando a Palermo nel maggio del 2013 per la memoria della strage di Capaci e proprio mentre arrivavo ho saputo della morte di don Andrea. Il giorno seguente ne ho parlato con gli alunni della scuola media “Biagio Siciliano” di Capaci, proprio il 23, il giorno della memoria. Il giorno successivo ero presente nella scuola media “Padre Pino Puglisi” al Braucacco per una sua memoria viva e partecipata; sabato 25 mi sono trovato tra gli 80 mila per la proclamazione a beato di don Pino, proprio mentre a Genova si celebrava il saluto a don Andrea Gallo. Vissuti interiori intensi riportati nel libro. Margherita Hack, il Dalai Lama, Beppino ed Eluana Englaro, Papa Francesco e tanti altri sono un patrimonio pregnante di significati profondi, proprio nella loro diversità.

Sei stato definito un prete di frontiera. Io, nel comunicato stampa inviato ai giornali locali, che annunciava la presentazione di questo ultimo libro, mi sono azzardato nel definirti prete rivoluzionario di altri tempi. Definizione, forse, troppo fuori luogo?
Paolo, ti ringrazio della tua considerazione e della tua stima. Non è una definizione fuori luogo, ma molto, molto esagerata. “Rivoluzionario” è chi inizia e contribuisce a un cambiamento profondo e ampio, che lascia il segno. Personalmente mi sento laico, umile credente sempre in ricerca e anche prete. Mi sento un uomo semplice e insieme complesso. Cerco di seguire la mia coscienza, il Vangelo di Gesù di Nazaret e la nostra Costituzione. Ho cercato e cerco, con tutti i miei limiti, di essere disponibile, di contribuire a una umanità più umana e alla Chiesa del vangelo. Non lo dico per falsa umiltà, ma mi sento piccolo; ho avviato e poi seguito, con il contributo insostituibile di tante persone amiche, il centro di accoglienza e di promozione culturale “Ernesto Balducci” di Zugliano. Questo modo di essere, di sentire e di operare mi ha posto alle volte in difficoltà con l’istituzione religiose e con la mentalità dominante nella società. Direi in sintesi così: “Cerco di fare dei segni umani, positivi”.

Con l’arrivo di Papa Francesco, possiamo parlare di una nuova primavera nella Chiesa?
La presenza di Francesco, Vescovo di Roma e Papa, è un segno molto importante di cui essere grati a Dio e a lui e del quale mi sento incoraggiato e così i preti come me e tante, tante persone soprattutto quelle in ricerca di una autenticità. Le sue parole su Dio, su Gesù, sulla fede sono inedite per un papa: quando, ad esempio, dice che Dio si cerca e si cerca ancora; che chi è troppo sicuro di credere non è un buon credente perché usa Dio per la propria sicurezza, che neanche per un credente la fede non è assoluta, perché assoluto significa slegato, mentre per la fede la verità è l’amore, quindi la relazione… Della Chiesa dice che dev’essere non autoreferenziale, non narcisista, ma delle periferie esistenziali; non di burocrati, non di funzionari della religione, ma di pastori che vivono la misericordia, l’accoglienza e la tenerezza… Parla della Chiesa come di un ospedale da campo dove si è chiamati a curvarsi sui feriti e a curarli. Il suo stile di vita corrisponde alle sue parole: non vive nel palazzo, ma a Santa Marta, mangia nel refettorio con tutti, veste in modo semplice, usa l’utilitaria, risponde alle lettere, parla al telefono con tante persone. E poi l’impegno e i segni per la pace, contro la corruzione, a favore dei poveri e degli immigrati. Spoglia soprattutto la Chiesa del potere dottrinale, economico, politico, liturgico… È un segno molto importante non solo per la Chiesa.

Perché hai Creato il centro d’accoglienza Ernesto Balducci?
Il Centro Balducci è nato dall’ispirazione evangelica all’uso del denaro, della casa, delle strutture, in modo comunitario, non individualista e privilegiato. Condivisione e accoglienza, a partire dal Vangelo e aprendosi all’umanità. Si è iniziato accogliendo tre immigrati del Ghana nel febbraio 1988. Poi i passaggi successivi, fra i quali importante quello del settembre 1992 quando è stata fondata un’associazione per la conduzione del Centro, dedicata a Padre Ernesto Balducci, morto il 25 aprile di quell’anno…Dopo l’acquisto e la ristrutturazione di un nuovo edificio dal giugno 2003 possiamo accogliere una cinquantina di persone: immigrate, richiedenti asilo, rifugiate politiche. Il Centro è basato quasi completamente su lavoro volontario e cerca di vivere contemporaneamente queste tre dimensioni: una spiritualità incarnata nella storia, l’accoglienza concreta della persona e la promozione culturale con tanti eventi che si svolgono nella sala polifunzionale dedicata a don Luigi Petris, prete dei migrati, e che fa parte della struttura nuova realizzata nel 2007 comprendente anche altri ambienti per una conduzione più idonea della vita del Centro. Il Centro Balducci è avvertito come casa accogliente da diversi gruppi e movimenti presenti sul territorio.

Mi sembra tu sia anche un promotore dell’apertura della Chiesa al matrimonio per i sacerdoti e al sacerdozio femminile. Volevo sapere se ti è mai capitato di sentire la mancanza di avere dei figli naturali tuoi oppure se questa mancanza viene sempre colmata dai tuoi parrocchiani e dagli ospiti del Centro Balducci?
La dimensione affettiva è per ogni persona fondamentale, costitutiva; senza amore non c’è vita; l’amore buono, positivo, non quello inquinato o deturpato fino alla violenza sottile o esplicita. Essere prete non dovrebbe comportare il celibato obbligatorio; ho sempre pensato a una Chiesa libera, umana, ricca di relazione nella quale ci siano preti celibi, quando il celibato è scelto con libertà, consapevolezza, maturità; preti sposati; donne prete, non per una parità clericale sconveniente, bensì per l’apporto indispensabile della femminilità, della diversità di genere nella esperienza della fede, nella Chiesa. Sarebbero anche da reintrodurre nel ministero i preti costretti a lasciarlo perché si sono sposati. Attorno ai 33-35 anni ho vissuto una forte nostalgia della paternità. Non mi pare adeguato, né rispettoso per le tante esperienze umane se io parlo di coprire mancanze affettive. La compensazione dell’amore che non c’è per lo più si risolve in un artificio non veritiero.

Ti sei laureato nel 1994 presso l’Università San Tommaso d’Aquino, a Roma, presentando la tesi “Morire nella città secolare: riflessioni teologiche in prospettiva pastorale”. Perché hai pensato alla morte?
Si, mi sono laureato a Roma con questa ricerca, con questa tesi sulla questione del morire, della morte, esperienza così concreta e misteriosa che sempre ci interroga e su cui personalmente rifletto molto, anche perché, ma non solo per questo, sono sollecitato continuamente come prete non solo a pensarci, ad elaborare, ma anche a comunicare pubblicamente, ad esempio nel saluto alle persone (funerali). Una questione che presenta tanti aspetti e su cui è importante meditare e meditare insieme. Quella tesi in teologia è stata un’ulteriore occasione, ma la ricerca di profondità deve sempre continuare.

Che cos’è stato il premio Epifania che hai ricevuto nel gennaio 2002 dalla Pro Loco di Tarcento?
È un premio tradizionale quello ricevuto a Tarcento nel gennaio 2002. È stato consegnato a tante persone; a me per aver favorito l’incontro e il dialogo fra persone di culture e fedi religiose diverse. Questi riconoscimenti non cambiano la vita. Possono rivestire un certo significato se favoriscono la diffusione di ideali ed esperienze positive; possono diventare un’ulteriore responsabilità e coerenza a continuare il cammino.
Un tuo pensiero sul poeta friulano Pierluigi Cappello che, la scorsa settimana, ha beneficiato anch’egli della Legge Bacchelli che garantisce il vitalizio agli artisti.
Stimo in profondità Pierluigi Cappello; la sua vicenda umana lo ha portato ad una speciale profondità del sentire; l’espressività poetica, l’indagine e la sperimentazione linguistica lo portano ad esprimersi in un modo così pregnante e comunicativo da mettere in vibrazione interiore l’animo di tante, tante persone. A lui una profonda gratitudine.

Paolo Belluzzo
paolobelluzzo@futuracoopsociale.it